Don’t be choosy – Racconto breve di una cameriera laureata

Out of the box
Out of the box

Un salto indietro.

Ottobre 2013 – Elsa Fornero, tra le righe, suggeriva – con la grazia di un elefante in un negozio di bomboniere – di non essere choosy. I rapporti dell’OCSE venivano commentati da Giovannini e ai giovani italiani si dava del “poco occupabili”. Avevo da pochi mesi concluso un master in Traduzione specialistica all’Università di Ginevra e, nel backstage di un hotel svizzero in cui ero in scena – eufemisticamente parlando – nei panni di un hôtesse d’accueil, leggevo Il Fatto Quotidiano e sorridevo, sorridevo felice di non essere analfabeta nonché infinitamente riconoscente per l’istruzione che i sacrifici dei miei genitori mi hanno permesso di avere. La  Lettera di un maestro a chi deve scegliere la scuola in un paese anormale scorreva sullo schermo tattile dell’Iphone 5 che mi era costato circa trenta giorni di levatacce all’alba per 8 ore al giorno di fila, in piedi, su tacco medio-alto, con tanto di orticaria nei weekend che si manifestava puntualmente alle 7.00 di ogni domenica mattina quando figli di papà agghindati a festa mi chiedevano flute di Dom Perignon per conciliare il sonno.

Mi sentivo fortunata, fortunata di non essere nata in un paese normale, di essere scappata via, di parlare più o meno correntemente tre lingue straniere e di apparecchiare e sparecchiare tavoli su tavoli con in tasca un ramasse-miette e due prestigiosi pezzi di carta appesi in camera. Ero fiera di me e orgogliosa di ritrovarmi alla fine del mese con uno stipendio che batteva di gran lunga quello di mia madre, avvocato, nell’Italia delle meraviglie. Ero indipendente, autonoma, e la solitudine tipica della condizione dell’esule, la combattevo circondandomi ogni giorno di arabi con tovaglie da picnic in testa, cinesi che scimmiottavano galline in sala per avere un sunny-side-up, escort di lusso senza mutande e piene di botox, russi scortesi, tailandesi mignons e chi più ne ha ne metta. Facevo la cameriera, sì, ma senza vergognarmene: perché in Svizzera non pagano 5 euro all’ora a chi si fa il culo, perché le convenzioni sociali sono libere di andare a farsi benedire, perché da qualche parte avrei dovuto pure cominciare, perché – a detta di qualcuno – mi faceva comodo accontentarmi e perché nel bianco e nero non ci ho mai creduto, ma mi sono sempre fatta abbagliare dalle sfumature a colori – o forse ingannare dalla poesia del francese (cfr. hôtesse d’accueil/cameriera).

Esemplare della Generazione Boomerang, mi tenevo stretto il mio contratto a tempo determinato e camminavo a testa alta, con i calli su tutte le dita dei piedi, le unghie spaccate da un disinfettante troppo aggressivo, la folta e ribelle chioma racchiusa in uno chignon che, in certi contesti, fa più lusso di una cascata di riccioli. E incontravo persone, curiosavo tra le pagine del Galateo, osservavo la gente e gli incontri/scontri di culture lontane dalla mia. Imparavo a modulare la voce e l’esuberanza, facevo addominali di flessibilità alternando più ruoli nell’arco di una giornata (centralinista, commis, buffetier, houskeeper), inscenavo la cortesia e mimavo giorno dopo giorno sorrisi sempre meno forzati, che, ad un tratto, si sono rivelati incontrollabili. Ridevo, ridevo di gusto, anche a chi mi domandava “more hot water” senza alcun “per favore”, anche in terrazza, in mezzo al vento e al gelo, quando mi si chiedeva di scrostare le sedie ricoperte – gastronomicamente parlando – di cacchette di passerotti e piume di corvi neri.

Sei mesi dopo.

Il contratto è finito. Restano 4 giorni di riposo. The end of a run is always the beginning of a new race.

Ho cambiato settore, ho un nuovo lavoro, un contratto a tempo indeterminato, la possibilità di scegliere tra due tetti e ancora una grossa valigia aperta sul pavimento. Chi si accontenta prima o poi gode.

Ai genitori di figli Boomerang mi sento di dire: regalate la tecnologia con moderazione ai figli che la chiedono insistentemente, fatelo come promozione. Fategli trovare in casa, ogni giorno, un quotidiano e, al posto di un sacco Louis Vuitton, offrite al diciottesimo compleanno una busta Ikea carica di libri, di ogni genere, dalla saggistica alla poesia. Comprategli un’auto solo dopo che avranno collezionato 12 abbonamenti per i trasporti pubblici, stipato in cantina 2 biciclette, bucato suole su suole di scarpe da 4 soldi. Colorategli la vita di arte, trascinateli per i musei e non al McDonald, incollateli sulle poltrone di un cinema, propinategli Rai Storia, National Geographic e, di tanto in tanto, fategli trovare un biglietto per un inter-rail. Invitateli ad essere curiosi, suggeritegli l’estremo, lasciateli andare quando ve lo chiederanno, rinunciate ai pranzi domenicali su tavole rotonde e qualche volta anche a cene di Natale con scambio di doni. Raccontategli della vita che avete vissuto, dei sogni che non avete mai realizzato, dei sacrifici che vi hanno fatto arrivare dove volevate. Insegnategli l’arte del sorriso e il sentimento di benessere propedeutico alla cortesia ricambiata. Proibitegli l’arroganza, l’arrivismo e l’ipocrisia. Ditegli che se le bugie hanno le gambe corte, le omissioni possono invece essere a fin di bene. Lasciate che i boomerang volino alto e tornino indietro solo dopo essersi scontrati con spessi tronchi di quercia.

Ai Figli Boomerang, invece: socializzate, fate sport di squadra, osservate i nonni in cucina e i vicini a spasso con il cane nel parco fuori casa. Camminate a piedi, arrampicatevi in montagna, fumate discretamente e ubriacatevi, ogni tanto, di sorpresa. Aprite le orecchie, toccate le trasparenze senza lasciare tracce, andate oltre, voltate pagina, piangete e bestemmiate. Stringete i denti, senza bite, inciampate in occasioni da non perdere e scivolate sulle persone piccole piccole. Prendete il tempo di Dalì e il cinismo di Bukowski, documentatevi sul bovarismo, gli scapigliati e l’arte degenerata tutta. Entrate ogni weekend in un bar o pub diverso e parlate a chi sta seduto al bancone se i tratti del viso non hanno segni troppo loschi. Non accettate le caramelle dagli sconosciuti ma chiedetevi perché c’è gente per strada che regala abbracci. Ascoltate tanta musica, farfugliate cazzate, parlate da soli in mezzo alla gente. Imparate le lingue straniere iniziando dalle iscrizioni bibliche sulle scatole dei cereali. Allontanatevi da casa per brevi o lunghi periodi rimanendo pur sempre in contatto con chi nella vostra camera entra, non vi trova e nella disperazione sorride sollevato dai ricordi della vostra infanzia. Assaporate, non divorate. Allenate la pazienza, addomesticate la sfacciataggine, limate la parola come Orazio. Imparate ad assumervi le responsabilità di gesti incoscienti e a fare i conti, anche senza calcolatrice, con i brutti scherzi dell’inconscio. Lavorate sull’autostima e sulla dignità. Prendetevi ciò che vi compiace, quando lo sentite e, se non ve lo chiedono, non giustificatevi. Siate voi stessi sempre, ma recitate quando la congiuntura lo raccomanda. Fregatevene delle apparenze e rifuggite dalle convenzioni sociali. Scavatevi la felicità nel fango e sollevatevi: ci sono luoghi in cui la meritocrazia sana esiste e non c’è bisogno di fare le audizioni di The Voice per farsi ascoltare. Non c’è bisogno del Grande Fratello per ottenere visibilità. Non c’è da farsi intercettare per diventare qualcuno.

Un pensiero su “Don’t be choosy – Racconto breve di una cameriera laureata

  1. ciao mariavittoria,molto bello il tuo racconto e tanto di cappello per aver messo come testimonianza le tue esperienze..a molti giovani potrà essere utile per avere il coraggio di andare verso una realizzazione che putroppo l italia non da….con molto rammarico direi ,e forse puo servire a molti genitori italiani che tengono i propri figli nella campana di vetro senza rendersene conto che oggi il mondo non funziona piu cosi….non è sicuramente costruttivo e credo che sia giusto che i nostri figli non diventano dei parassiti….. che prendessero esempio .un bacio forte rosalba

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